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Works

Luciano Berio
Sequenza IV
(1966)
for Piano


Length: 08:00
Editor: Universal Edition - Wien

La composizione di Sequenza IV è stata portata avanti, cosa eccezionale per Berio, al pianoforte. Essa deriva dal gesto strumentale peculiare del compositore e da un tentativo di scrittura che fu, a detta di Berio stesso, laborioso, perché assomiglia, in una certa misura, alle difficoltà che si riscontrano nella trascrizione esatta delle musiche improvvisate e delle canzoni popolari. Effettivamente è sotteso a Sequenza IV questo carattere di improvvisazione, influenzato dal jazz (all'epoca della composizione Berio viveva negli Stati Uniti); l'autore raccomanda, del resto, di tener conto di queste due dimensioni nell'esecuzione del brano. Da tale fattore deriva forse l'energia che attraversa il pezzo, con i suoi bruschi cambiamenti e la sua capacità di mantenere in permanenza più livelli al massimo grado di densità. Ne conseguirebbe anche un percorso formale meno complesso e meno flessibile di quello di altre Sequenze, che lascia emergere la giustapposizione più che l'intreccio tra le diverse sezioni.
Sequenza IV è, come si può notare, uno dei pochissimi pezzi del ciclo che utilizzano la notazione ritmica tradizionale. Generalmente, infatti, Berio usa la notazione spaziale, in cui il concetto di pulsazione scompare a favore della densità propria di ciascun evento musicale. In questo modo, più che concedere una reale libertà all'interprete, Berio evita qualsiasi formalizzazione, dato che la figurazione singola conserva la propria autonomia e sfugge a qualsiasi sistema globalizzante. D'altronde, è possibile valutare la distanza che separa questi due tipi di notazione ritmica confrontando le Sequenze con i Chemins che da esse derivano: la parte solistica, riscritta in notazione misurata, dà la sensazione di una perdita di energia, di una riduzione a una dimensione più rigida.
L'idea generale dell'opera è basata su un processo di orizzontalizzazione progressiva di una struttura armonica. Berio espone il materiale armonico nelle prime battute, come opposizione di due tipi di accordi: uno, basato su triadi, trae dimensione dalle strutture tonali non funzionali che lo colorano (accordi maggiori/minori/eccedenti...); l'altro, più compatto, più difficilmente analizzabile all'ascolto, è basato su relazioni cromatiche e si avvicina al rumore.
Tale opposizione permane lungo tutta l'opera: il secondo tipo di accordo genera, per esempio, la scrittura a cluster, mentre dal primo si sviluppano le figurazioni melodiche che utilizzano intervalli "consonanti", come il lungo episodio sulla sesta fa-re (p. 7 della partitura). Queste figurazioni melodiche sono introdotte progressivamente, dapprima quasi come appoggiature, poi sotto forma di passaggi virtuosistici o tremoli, infine, come arpeggi che coinvolgono l'intera estensione della tastiera ed evocano l'Etude in la bemolle di Chopin (pp. 12-4 della partitura). Tuttavia, i due modi di scrittura interagiscono l'uno con l'altro, di modo che i cluster si integrano con certe frasi melodiche, così come gli arpeggi appena descritti. Le curve melodiche, perciò, presentano spessore varia- bile, a seconda del fatto che utilizzino note singole, intervalli, oppure cluster. Si attua così una sorta di fusione tra la dimensione verticale e quella orizzontale.
Per quanto concerne la forma, questa Sequenza presenta una coda che assume nettamente l'aspetto di una ripresa, sebbene non letterale. Vi si ritrova, infatti, l'opposizione dei blocchi armonici, senza, o quasi, figurazioni melodiche. Come in Sequenza I, Berio mantiene una densità costante giocando sui diversi parametri e modalità di esecuzione: le intensità e il tempo cambiano continuamente e l'esecutore deve passare con grande rapidità da un tipo di articolazione o di attacco a un altro, dallo staccato al legato, il che impone una permanente tensione e, nello stesso tempo, esige una certa elasticità. In questo senso, benché utilizzi mezzi molto diversi, quest'opera si avvicina a Sequenza III. Essa tenta di cogliere e di esteriorizzare tutta una serie di gesti pianistici.
Un elemento fondamentale di questo brano è l'uso del terzo pedale. Contrariamente a Boulez nella Terza Sonata, Berio non se ne serve per generare timbri o strutture armoniche legate all'esecuzione "normale", ma come di un mezzo per inventare un discorso secondario, una sorta di cantus firmus dallo sviluppo più lento, che contrappunta l'esecuzione normale. Le strutture armoniche afferrate dal terzo pedale e mantenute nell'ombra delle strutture principali dipendono da queste ultime, ma hanno una propria evoluzione. Esse creano una prospettiva e sembrano una specie di commento all'esecuzione normale. Berio, anche qui, dissocia e ricostruisce al fine di creare una scrittura polifonica inedita. Boulez, al contrario, integra il terzo pedale nell'esecuzione pianistica.
Quest'idea di duplicità si ritrova spesso nella musica di Berio, così come questa volontà di straniamento di una struttura, o di un'azione, per mezzo di un'altra. In questo modo, Berio non elabora tanto una polifonia di note, quanto una polifonia di azioni, una sorta di metapolifonia che crea, indubbiamente, la dimensione gestuale, perfino teatrale, dell'esecuzione.
(Philippe Albèra: Introduction aux neuf sequenzas - "Contrechamps", 1 settembre 1993)