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Opere

Salvatore Sciarrino
Lettera degli antipodi portata dal vento
(2000)
per Flauto solo


Durata: 05:00
Editore: Ricordi
1� Esecuzione: Oslo - Ultima Festival - 10/2002

Questa composizione senza storia ha una storia senza storia. Ovvero: dietro questa costruzione della fantasia c'è la storia di un nuovo incontro, e ad alcuni essa parrebbe minuscola e insignificante.
Nell'anno 2000 il Festival d'Automne à Paris dedicò a me una serie di
concerti e spettacoli, e fu una delle occasioni meglio congegnate intorno
alla mia musica. Le prove si svolgevano in altre città d'Europa. Quando ero
a Parigi, nei momenti liberi, correvo in albergo a lavorare su un pezzo per
flauto solo. Diagrammi provvisori dai segni leggeri, fogli mezzi vuoti:
camera e tavolo erano comodi e ben organizzati, favorevoli le luci; dunque
mi dispiaceva non disporre di tempo a sufficienza dato che il brano
richiedeva più e più impegno e la stesura non scorreva liscia come i
concerti. 
Dopo ogni serata, dietro le quinte, ricorreva un appuntamento senza
appuntamento: si veniva materializzando la figura del famoso compositore
Kurtag, sorridente e complice, sempre presente con l'inseparabile compagna.
Alcune composizioni di lui mi avevano colpito per la capacità di parlare con
pochi mezzi, cosa non comune anzi straordinaria; però fino allora non ci
eravamo visti. Desiderando di passare qualche ora insieme, partorimmo infine l'invito per un tè a casa loro, e ci incontrammo.
Scambi di ascolto, scambi di pensiero, amicizia sul nascere: avviene
raramente, anche se dovrebbe costituire il tessuto ordinario della nostra
vita sociale. Invece penso alle visite tra gli eremiti nel deserto, al peso
echeggiante per anni delle parole dette.
Finita la festa, una volta tornato al mio paese presto riuscii a terminare
il pezzo per flauto e lo inviai a Kurtag con una dedica e senza una parola.
Non so cosa egli abbia pensato del pezzo e del mio comportamento; non gli ho mai scritto perché volevo inviargli la musica.
La fragilità dell'essere al mondo, la distanza delle nostre traiettorie e la
fiducia di potersi comprendere senza conoscersi: ecco ciò che rappresenta per me l'ultimo brano per flauto, il dodicesimo dopo AlI'aure in una lontananza. Anche quella era una lettera vaga, scritta ventitre anni prima. Devo adesso accennare al titolo, il quale è tratto da un repertorio
seicentesco di iconologia. Ascoltando appunto la Lettera con Trisha Brown
nel suo studio di Broadway, mi scappò un'espressione sulla natura
discendente del pezzo, che a lei piacque molto: è la geometrizzazione di un lamento. Stavamo seduti fra i danzatori in pausa, le grandi vetrate non
arginavano il fragore continuo del traffico.
Caro Kurtag, cara Márta, certo che avrei voglia di rivedevi, lungamente la
memoria si porta verso di voi. Mi si agitano dentro domande, si affollano
difficili da formulare. Dal fondo dell'amarezza, cosa possiamo contrapporre
ai disastri del mondo, alla brutale o democratica imposizione delle
diseguaglianze, al naufragio degli ideali sociali? Ancor più difficile
rispondere da artisti.
Basterebbe la coscienza dell'irripetibile individualità che è in ciascun
essere vivente, perfino nell'occhio fisso di un piccione? È questa coscienza
forse il bello della vita? Basta lo sforzo di aprire la propria mente
all'altro, al diverso da noi, affinché ciò che già sappiamo non
s'irrigidisca e getti un'ombra decisa di ignoranza? Basta l'amore di
libertà? 
Basta un piccolo nucleo di amicizia a scaldare queste estati fredde? Rimane un postscriptum da aggiungere al mio pezzo, e sono i gridi paurosi che mi risvegliano la notte. Prima o poi lo farò per mandarvelo.
Spesso scrivo lettere che il destinatario non riceverà. Mentre me ne chiedo
ragione, piuttosto che Kafka intravedo Borges.
Il mio comportamento non è educato alla linearità, dissimula in effetti una condizione d'animo e una certezza, che il piacere della vita, parente del tepore autunnale, non consista nel trattenerla. Un personaggio, Simplicius, ha suscitato in me sempre un'adesione quasi pericolosa: dopo una vita di successo, egli scompare su un'isola sperduta, forse non agli antipodi ma quasi, donde non ritorna. Ebro di felicità vive riempiendo di scritte la vetegazione, come un'antica Sibilla o come i poeti-asceti del Giappone, al sicuro dalla Cura che acceca Faust.
Sfoglio il quaderno delle minute, ecco un biglietto a Nono (non avevo voluto mandarlo dato il suo stato di salute). Sopra, non una data bensì il nome di una colonna di fuoco azzurro: Cernobyl.
"Gigi, passo da un malumore all'altro per non sprofondare interamente.
Pensavamo fosse diverso, esisteva un futuro in cui ciò che appare difficile si sarebbe dato alla portata di tutti. Questo affermava la nostra ricerca.
Sembra ora neutralizzato ogni ideale di intelligenza, e la nostra
sensibilità troppo sottile, nevrotica, umanitaria tanto che nessuno più sa
che esiste. Abbiamo perso i nostri diritti? Il comfort, l'impersonale
progresso hanno prosciugato la fantasia di conquista. L'impersonale
progresso che cela gli interessi dei gruppi finanziari: non abbiamo
prospettiva di sviluppo ne voce. Così siamo costretti, nuovamente, al
coraggio cieco della solitudine".
Più avanti nel quaderno gli scrivevo ancora, fra me e me.
(Salvatore Sciarrino)